IG: https://www.instagram.com/valeriomartorelli/
Valerio Martorelli, classe 1992, diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ha firmato ad oggi la fotografia del lungometraggio di Giulia Grandinetti “Alice e il paese che si meraviglia”.
Come nasce la passione per la fotografia nel cinema? chi sono i tuoi riferimenti?
Con la fotografia avevo già un’intesa quando a 14 anni iniziai ad assistere alcuni fotografi del mio paese.
Durante la fine del quarto anno di liceo scientifico insieme ad alcuni amici appassionati di cinema creammo un gruppo di lavoro.
I miei pomeriggi dediti allo studio della derivata algebrica vennero spesso interrotti da telefonate argomentate sui film dei grandi registi. I nomi che citavamo erano molto più grandi delle considerazioni che facevamo, ma Fellini, Kubrick, Godard, Truffaut e molti altri hanno alimentato quei momenti di evasione dallo studio della matematica e del latino, radicando in me un desiderio di prendere parte ad una realtà di cui non conoscevo nulla.
In quel periodo durato quasi tre anni realizzavamo cortometraggi sfruttando le videocamere che utilizzavamo anche per i matrimoni.
Le uniche luci che potevamo permetterci erano delle pinze ianiro elemosinate ai miei amici fotografi, che diffondevo con carta forno o riflettevo su lenzuoli bianchi. Tutto ciò che aveva una superficie riflettente diventava uno strumento per sperimentare; dal vassoio dorato della Sachertorte, allo specchio, al tulle bianco dei confetti usato come filtro davanti alle lenti.
L‘interesse verso la cinematografia è stata una convergenza di due esperienze; quella da assistente fotografo durante la quale montavo i fondali, preparavo i softbank, posizionavo i flash e la più impetuosa esperienza con il gruppo di amici.
Hai fatto una scuola di cinema? Cosa hai imparato dai tuoi maestri?
Nel 2011 mi sono iscritto al corso di fotografia e cinema all’Accademia di Belle Arti di Napoli, prima di diplomarmi al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2016.
Quello che mi piaceva di più dell’accademia erano le lezioni di storia dell’arte, di teoria della percezione e comunicazione visiva, ma nonostante tutto l’Accademia non sembrava dare contenuto e spazio alle mie ambizioni.
Il Centro Sperimentale in questo è stato il luogo determinante per la mia prima formazione.
La scuola mette a disposizione tutti i mezzi necessari per una comprensione profonda della fotografia cinematografica ed educa all’importanza della collaborazione con gli altri reparti.
Durante i tre anni abbiamo partecipato a numerose lezioni sostenute da importanti direttori della fotografia, ma la fortuna è stata avere docenti come Giuseppe Lanci ed Emilio Loffredo che reputo miei maestri nell’accezione più intima del suo significato; umano.
Le lezioni con Lanci erano degli incontri in cui l’entusiasmo fanciullesco di fronte alle disponibilità dei mezzi nel realizzare le atmosfere, lasciava spazio ad un analisi della composizione, dei movimenti di macchina e alle scelte della luce giusta.
L’insegnamento di Emilio era frutto dell’intensa esperienza trascorsa accanto a suo zio Gianni Di Venanzo e a Pasqualino De Santis, ma ancora più grande è stata la sua dimostrazione dinnanzi alla vita, non avendo mai cessato di dimostrare entusiasmo per questo mestiere facendoci dono dei suoi insegnamenti fino alla fine.
Che cosa è per te la fotografia nel cinema ?
Mi viene in mente la riflessione di Ferdinando Scianna sulla fotografia, nella quale distingue come può essere interpretata la parola “fotografia”, termine composto da phos/photos e graphia.
Per Scianna la fotografia è “scrittura di luce”; nella quale il mondo è autore di se stesso e il fotografo è il destinatario, il lettore, l’interprete.
L’altra definizione che Scianna riconosce e convive legittimamente è “scrittura con la luce”, che pone il fotografo sul versante dell’arte, dell’arbitrio.
La facoltà di scegliere la qualità, la tonalità, l’intensità e la direzione della luce fanno del direttore della fotografia cooperatore della drammaturgia del racconto.
Per me la fotografia nel cinema rappresenta la trama latente della ricerca psicologica e narrativa del regista, che in combinazione alla scenografia e ai costumi diventa disegno di un equilibrio sinergico.
Chi sono i tuoi riferimenti ?
Cerco di stare lontano dai riferimenti autoritari, totalizzanti e ricchi di comuni simbolismi, cerco di essere sempre aperto a continue sollecitazioni e a nuovi insegnamenti; c’è però un libro con cui ho un legame intenso che rileggo spesso alla ricerca di una risposta ed è “Lezioni americane” di Italo Calvino.
Amo tutti i valori di cui parla Calvino e le citazioni con cui argomenta i discorsi sui sei valori indispensabili per la letteratura nonché per la vita.
Tengo sempre a mente la lezione sulla “Leggerezza” in cui Calvino, parlando del mito di Perseo e la Medusa, parafrasa le parole di Paul Valéry ricordandoci di “essere sempre leggeri come l’uccello che sfrutta le correnti d’aria per decidere dove spostarsi”.
Ciò che ci caratterizza non è la serietà con cui esprimiamo i nostri pensieri, ma la leggerezza della “pensosità”. Calvino aggiunge: <<La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso>>.
Un’altra lezione che fa per me di questo saggio un testamento è il capitolo “sull’Esattezza”; Calvino enuncia con precisione il bisogno dell’uomo di essere icastico, incisivo e memorabile.
La profondità non è nella struttura retorica del pensiero, né nel dare prova di essere uomini intensi ,ma nella nostra ricerca che apporta con semplicità un valore alla nostra struttura.
Sono vari e molto diversi tra loro gli artisti che amo, ma insieme a Calvino, nel testamento ci sono Turner, Kirchner, Magritte, Sven Nykvist, Delbonnel, Antonioni, Chris Marker, Franco Fontana, Ghirri, Larry Clark, Welles, Cassavetes, Morricone, Battiato, Di Venanzo, Kieslowski, … Nino Manfredi…
Come stai costruendo il tuo percorso da direttore della fotografia ?
Mi prendo del tempo scegliendo di curare la fotografia di pochi progetti durante l’anno.
Amo molto osservare il lavoro dei direttori della fotografia sul set e dopo il Centro Sperimentale ho avuto la fortuna di cominciare subito a lavorare in squadra con Michele D’Attanasio.
Nel reparto mdp ho iniziato prima come video-assist in seguito diventando aiuto operatore.
Da Michele ho imparato tante cose, ma ciò che osservo sempre con grande ammirazione è la versatilità, l’intuizione e la velocità di esecuzione che rendono il suo lavoro originale.
Uno degli operatori che ho visto lavorare più spesso è Matteo Carlesimo; il suo modo di essere, la sua cultura cinematografica e la continua ricerca dell’equilibrio nella composizione fanno di lui una tra le personalità a me più influenti.
Ma sul set, negli ultimi anni, la persona con cui ho trascorso molto del mio tempo è l’assistente operatore Danilo Caruso. Danilo è colui che mi ha insegnato più cose di questo mestiere, la sua precisione lo rende una delle persone più esigenti che io abbia mai conosciuto, il suo carattere e il suo rigore mi hanno dato in alcuni momenti del filo da torcere, ma la sua professionalità e la sua generosità lo rendono un riferimento importante.
Sono tante le persone di cui potrei parlare, che hanno contribuito alla mia esperienza, potrei parlare delle tante attrezzature che usiamo sui set o delle trovate nella realizzazione di certi movimenti macchina o di ciò che ho visto fare da Nicolaj Bruel, Luca Bigazzi o altri, ma ciò che mi rende fiero di questo percorso è lo scambio umano che ne scaturisce, frutto dell’osservazione di ciò che mi circonda.
Per chi il cinema lo intende come forma d’arte dedico un pensiero molto bello di un’artista controverso, Joseph Beuys il quale credeva nell’arte non come ricerca estetica, ma come tentativo di scoperta di un diverso modo per avere relazioni umane.
Qual è il tuo approccio alla fotografia? Come costruisci un progetto in merito alla fotografia?
Non credo di avere sempre lo stesso approccio. Oltre al comune scambio di reference, dell’ analisi del ritmo narrativo e dei movimenti di macchina, al regista chiedo sempre che musica ascolta, da lì cerco di immaginare in una gerarchia di relazioni, i vari equilibri e le molteplici tensioni.
In che consisterebbe il tuo rapporto ideale con un regista?
Amo stringere legami umani, sono la fonte di stimolo e del risultato di un film, ci basta pensare ai grandi sodalizi tra Bergman e Nykvist, Fellini e Rotunno, Rohmer e Almendros, Bertolucci e Storaro, Allen-Di Palma, Wes Anderson-Yeoman. Tutto questo ci insegna che il film prima del “rec”, ha bisogno di un’intesa umana.
Nei progetti di cui hai realizzato la fotografia ti sei scontrato con la mancanza di mezzi, come hai reagito da un punto di vista artistico?
Ci sono momenti in cui l’assenza di mezzi può farci peccare di accidia e Dante gli accidiosi, nel quinto cerchio li raffigurava sommersi nel fango dei loro sospiri.
L’atteggiamento negativo all’assenza dei mezzi ci sottrae alle possibili risoluzioni ingegnose e creative che spesso diventano i punti di forza del film.
Una di quelle soluzioni mi apparve su un lungometraggio indipendente “Alice e il paese che si meraviglia” di Giulia Grandinetti.
Giulia voleva un ambiente totalmente bianco, con costumi e scenografie bianche.
L’unica location che rientrava nel budget del film era una stanza lunga 14 metri, larga 12 e alta 3m.
L’effetto desiderato doveva essere simile ad un limbo bianco, un po’ come in alcune scene di THX 1138.
I mezzi ed il budget del film limitavano il tutto a pochi proiettori che non convincevano le mie idee rispetto alla resa. Dopo svariate meditazioni, mi venne in mente d’installare 4 file da 10 lampadine opaline da 60W tutte dimmerate su 4 linee differenti, l’ idea esteticamente venne sposata dalla regista e dalle scenografe. Oltre al risultato estetico soddisfacente mi diede anche la possibilità di guadagnare del tempo durante le riprese, spostandomi semplicemente per l’intero ambiente con un proiettore, due telai e qualche gobbo.
Le lampadine le acquistammo in lotto ad un prezzo stracciato di 50€ su subito.it.
C’è un progetto in particolare di cui sei soddisfatto fotograficamente?
Seppur quando lavoro provo continue soddisfazioni, riconosco che i risultati documentano la mia identità e se c’è qualcosa che sottopongo ad un continuo giudizio è proprio questa, l’identità.
E’ un rapporto irrazionale, una continua rincorsa.