IG: https://www.instagram.com/jacopocaramella/
Jacopo Caramella, classe 1987, figlio per un pelo degli anni 80. Lo dimostra dalle camicie floreali che purtroppo si ostina a indossare. Compensa con un estremo rigore che traspare non solo nel lavoro ma anche nel parlare di cinema. Con lui abbiamo condiviso una delle esperienze più formative della nostra carriera: la realizzazione del cortometraggio di diploma “Episodio” di Sonia Giannetto. Quattro chilometri di pellicola 35mm e più di un proiettore diecimila rimbalzato più e più volte perché la luce sia più morbida possibile. E’ un professionista esigente ed estremamente determinato. Questo rende lavorare con lui divertente e stimolante.
Ha firmato recentemente come Direttore della fotografia il suo primo lungometraggio: Europa di H. Rashid.
Come nasce la passione per la fotografia nel cinema? chi sono i tuoi riferimenti?
L’incapacità di disegnare, unita alla passione per le immagini che ho avuto sin da piccolo, mi hanno probabilmente avvicinato alla riproduzione fotografica dell’immagine. La “scoperta” del cinema ai tempi del liceo ha allargato il mio orizzonte, divenendo il punto di convergenza dei miei interessi prevalenti di allora – letteratura, storia, storia dell’arte, filosofia. Il passaggio successivo è stata l’Università di Cinema, Tv e New Media. Qui ho avuto modo di costruire il mio archivio di visioni e allargare lo spazio delle mie esperienze visive, confrontandomi e mettendo a fuoco una prima identità cinematografica che si è andata consolidando sulla fotografia.
Ci sono moltissime influenze e punti di riferimento che potrei recuperare, mi vengono in mente i colori di Mirò e Magritte, Paul Klee, amavo inspiegabilmente un quadro di Delacroix, e poi i film di Lynch, quando vidi per la prima volta Strade Perdute fu una rivelazione, l’universo di Malick, tanto cinema sperimentale, Fitzcarraldo, la fotografia sporca e “violenta” di La battaglia di Algeri, Roger Deakins, Bruno Delbonnel, le immagini di Sokurov, Koudelka, D’Agatà, Sobol, Majoli, Pinkhassov, ma in generale penso che il nostro immaginario sia in costante trasformazione e si definisca prima di tutto “dall’orientamento” del nostro sguardo rispetto a tutto quello che ci circonda. In questa prospettiva, riferimenti visivi, cultura istituzionalmente “alta”, anche letteratura e saggistica, si equivalgono e per me lavorano sullo stesso piano delle impressioni della vita quotidiana, delle osservazioni di luoghi, ambienti, persone e gesti che incontriamo – come si muove il mio goffo cane equivale a un quadro rinascimentale nella costruzione della mia sensibilità visiva, oppure il ricordo delle mani di mia nonna, i colori della vacanza in Liguria a 6 anni, le iguane del Messico, la paura dell’aereo che durante il volo mi fa avere un’esperienza ossessiva e ridicolmente mistica dello sguardo. C’è poi sempre qualcosa di nuovo che mi cattura o che assimilo senza accorgermi, qualcosa che invece rivedo con un nuovo sguardo, riscoprendolo – il nostro immaginario è sempre in cammino e difficilmente circoscrivibile in una “fotografia” di tempo presente.
Hai fatto una scuola di cinema? Cosa hai imparato dai tuoi maestri?
Sono diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia in direzione della fotografia con docente responsabile Giuseppe Lanci. Sono entrato dopo aver concluso il percorso universitario quinquennale e un anno di Scuola Civica di Cinema di Milano. Il Centro Sperimentale è stato sicuramente l’esperienza formativa più importante: si fa tantissima pratica, si impara davvero a girare e ad illuminare, si sperimenta costantemente. Numerosi professionisti del settore sono venuti a farci seminari, esercitazioni, a condividere il loro modo di lavorare e di illuminare. Questa impostazione aperta ci ha permesso di aggiornarci sul digitale, conoscere diverse soluzioni fotografiche, crescere dal punto di vista tecnico e visivo. Trovo però altrove gli aspetti sostanziali di questo percorso, che condenso in due ricordi emblematici: quando arrivavi al Centro la mattina, trovavi il maestro Lanci puntualmente presente dalle 8.30, in giacca e camicia a consumare il caffè al baretto interno; tratteggiavi un saluto deferente che lui ricambiava con un cenno. Il maestro Emilio Loffredo era già al magazzino macchine da presa, ad armamentare sul suo tavolino da lavoro per aggiustare qualcosa, scarpe rigorosamente lucide e pulite, un’eleganza d’altri tempi intrecciata ai suoi memorabili aneddoti e battute senza filtri. Da loro abbiamo assorbito precisione, affidabilità, costanza e disciplina nel lavoro. Il reparto macchina richiede massima concentrazione ed attitudine, l’esempio dei nostri maestri ci ha preparato alla prassi del set da questo punto di vista, soprattutto passione in quello che si fa, sempre. In secondo luogo l’acquisizione di un’attitudine propositiva ad affrontare le problematiche e difficoltà realizzative – lo spirito del “si può fare”: c’è sempre una soluzione tecnica o creativa per ottenere il risultato richiesto. All’inizio per me era difficile vedere oltre il limite oggettivo – “date le circostanze, forse questo non si può fare” era la prima reazione. Una risposta istintiva che ho imparato a sradicare come imperativo categorico. In realtà una soluzione di qualche tipo, magari artigianale, ingegnosa o improbabile, c’è sempre. Insomma, rendere possibili cose che al primo sguardo risultano impossibili. Questa è un po’ la magia del cinema. Per me è stato un cambio di paradigma nel modo di pensare, mi ha ha dato una linea molto più importante di tante altre nozioni tecniche, riflettendosi anche nella vita personale, perché ti fa andare un poco oltre i tuoi limiti e forse questo è anche il motivo per il quale noi vogliamo fare cinema. Ci sono poi le esperienze di set una volta finita la scuola, talvolta altrettanto importanti.
Qual è il tuo approccio alla fotografia? Che cosa è per te la fotografia nel cinema ?
L’immagine per me è il punto d’incontro tra la realtà e l’immaginario – l’insieme delle nostre visioni, desideri, sensazioni, percezioni ed emozioni proiettate su di essa. Una superficie di riemersione e sprofondamento al tempo stesso. E’ sempre un grande contenitore di memorie, di stratificazioni, di tradizioni ed esperienze visive, di sguardi – un grande Atlante. Ogni immagine ha al suo interno infinite altre immagini. Il cinema è il grande mondo dell’immaginario in movimento: forme che si rimandano e si ritrovavo, si deformano, si trasfigurano, si richiamano ossessivamente, si rincorrono lungo tutta la sua storia. Una trasversalità costante che il cinema moderno ha spesso saputo tematizzare con lucidità, ma anche il cinema post moderno con la sua estetica del frammento, o il citazionismo fine a se stesso, hanno rilanciato, riportando in contesti più commerciali ciò che il cinema sperimentale ha sempre fatto in termini di deformazione, archeologia e recupero, trasfigurazione e ribaltamento di senso, riemersione, nel corpo stesso delle immagini. Per me stare dentro un film dal punto di vista fotografico significa prima di tutto risvegliare in modo abbastanza istintivo e sensoriale questo insieme di memorie che ognuno di noi ha, cercare di intercettare quel flusso che serve sia nella fase di concezione di una estetica e di un linguaggio, sia nella prassi del set come intuizione utile a migliorare e modificare un’inquadratura. Un universo da dimenticare per riscoprire istintivamente di volta in volta, scivolando in una dimensione tanto personale quanto sovraindividuale. Lo stesso accade allo spettatore, non vedo differenza in questo senso. Non riesco a scorporare dall’immagine la sua componente fotografica. L’immagine è un’insieme di segni in cui la forma è il contenuto e viceversa, ed è sempre rivolta a noi, ci interpella sensorialmente ed emotivamente. La “fotografia” in senso esteso è il modo in cui ci si presentano le cose al Cinema, ha a che fare con gli elementi plastici, ma anche con i gesti, i corpi e il tempo. Del resto, come un’immagine filmica racconta sempre una storia possibile, una storia non racconta mai solo una storia, ma un modo di essere, un mondo da abitare con lo sguardo, l’emozione e il pensiero.
Come stai costruendo il tuo percorso da direttore della fotografia ?
Sono all’inizio della mia carriera, per cui un percorso ancora aperto e in divenire. Ho avuto la fortuna di fare il mio primo lungometraggio l’estate scorsa, EUROPA, ora in post produzione, nell’attesa che riapra il circuito dei festival ed eventuali successivi sviluppi.
Per il resto sono interessato a progetti molto diversi, dal documentario al commercial, al videoclip, dove si fa una fotografia spesso diversa, ma si aprono orizzonti di sperimentazione molto interessanti. Proseguo poi le collaborazioni, strette soprattutto negli anni del centro sperimentale, con giovani registi o altre persone intorno a me che stanno sviluppando progetti per il futuro. Mi sto concentrando soprattutto sul consolidamento di una ricerca estetica e tecnica, ma non solo stilistica – non mi sento di voler definire uno stile personale univoco -, quanto piuttosto una sensibilità personale e certe modalità di lavoro. Il mio sforzo è soprattutto nel cercare di portare questi aspetti nei progetti che mi capita di fare, anche nei più piccoli, perché penso che nel lungo periodo avere un’identità sotto questo punto di vista possa costruire un percorso più solido.
Come costruisci un progetto in merito alla fotografia?
Penso che la fotografia di un film cominci dalla prima stretta di mano con il regista e finisca con il controllo qualità del DCP. Tutto quello che sta in mezzo ha a che fare con la fotografia in egual misura. Nella prima lettura in solitudine della sceneggiatura cerco di comprendere storia, personaggi e ambientazioni in profondità, mi appunto le prime idee e suggestioni di ogni tipo, segno dubbi e interrogativi. Poi ci si confronta sullo script assieme al regista e si inizia a costruire insieme il film, ascoltando la sua visione. Dedico molto spazio a questa fase: devo capire in profondità la drammaturgia delle scene, gli snodi narrativi e il percorso interiore dei personaggi. Proseguo il mio lavoro di costruzione fotografica recuperando reference dal mio archivio di immagini e film, che espando quotidianamente, e le condivido col regista, ricevendo da lui ulteriori reference. La preproduzione fa l’80% del risultato della fotografia dal mio punto di vista. Prima di tutto la scelta delle location, sia esteticamente, sia per la suggestione degli spazi, sia dal punto di vista logistico e di esposizione al sole. In questa fase la collaborazione con gli altri reparti è fondamentale, soprattutto scenografia e costumi, per trovare scelte condivise e coerenti. Sebbene ogni progetto abbia una sua specificità, in linea generale io cerco di lasciarmi sempre molto ispirare dalle location, mantenendo almeno in questa fase uno spirito documentario, senza portare pesantemente uno stile o un’idea fotografica completamente scorporati dal luogo nel quale mi trovo. Visito le location più volte, fotografo molto, osservo la luce del sole a vari orari, cerco inquadrature o ipotesi di movimenti di macchina sulla base delle scene. Prendo molti appunti. Anche la conoscenza degli attori per me è importante. Se è possibile preferisco fare anche qualche test fotografico con loro, molto informale ma utilissimo sia per una maggiore consapevolezza nella scelta delle lenti, sia per eventuali accorgimenti fotografici. Quando la preparazione del film funziona bene, il momento delle riprese diventa un’opportunità creativa, anziché un campo di battaglia dove risolvere problemi trascinati da tempo. Si riescono allora a trasformare gli imprevisti o le situazioni inattese in occasioni creative da cogliere con una certa agilità e apertura mentale. Poi c’è la postproduzione. Io cerco di essere sempre molto presente in fase di color. Il colorist per me non è solo una figura tecnica, ma un Color Artist, che può portare idee e soluzioni nuove. Coinvolgerlo già in partenza, durante i test fotografici, coordinarsi col DIT e testare già le LUT che vogliamo usare aiuta a raggiungere l’immagine che abbiamo in mente. Infine fanno parte della preparazione del film anche sperimentazioni individuali che si fanno al di fuori dei progetti: piccole luci che costruiamo da soli oppure test di nuovi proiettori o di setup fotografici diversi da quelli che già abbiamo usato. In un certo senso siamo sempre in preparazione.
In che consisterebbe il tuo rapporto ideale con un regista?
Desidero continuare a fare progetti molto diversi, per me fare il direttore della fotografia significa non lavorare chiuso dentro il perimetro di uno stile personale o solo dentro un determinato genere.
Non penso pertanto di avere un regista ideale o un archetipo di regista. Mi rendo sempre più conto che è molto più interessante avere a che fare con persone molto diverse. Del resto il regista è una figura molto particolare, che sta in mezzo a tante categorie, non ha un identikit delineabile a tavolino. Ci sono registi che hanno un immaginario più tematico e gestuale e registi più orientati sull’immagine. Un regista che ha un mondo da raccontare, sentito e vissuto, e che vede nel direttore della fotografia la persona con cui costruire il film, portare avanti insieme un percorso di creazione visiva, ma anche narrativa; che ha l’esigenza di confrontarsi sul piano cinematografico per sviluppare insieme il il mondo che vogliamo raccontare, è un regista con cui sento di avere affinità, indipendentemente da dove provenga e quale sia la sua identità culturale e cinematografica, tematica, narrativa ed estetica.
La cosa più importante poi è trovarsi umanamente e avere un piano comune di sensibilità e comunicazione.
Nei progetti di cui hai realizzato la fotografia ti sei scontrato con la mancanza di mezzi, come hai reagito da un punto di vista artistico?
Ricordo le esercitazioni di disegno in cui la maestra ci faceva ritrarre il compagno di banco e poi ci chiedeva di lavorare solo con la gomma per cancellare tutte le linee superflue, fino a raggiungere l’essenziale del disegno. Penso sia un esercizio comune.
Nei progetti che ho fino a qui realizzato praticamente ho sempre dovuto lavorare con la gomma, dopodiché penso che Cinema e audiovisivo debbano sempre confrontarsi con il budget, i costi, i mezzi a disposizione, le limitazioni; con le dovute proporzioni anche i progetti di dimensioni importanti. Per me l’importante è individuare gli elementi portanti del progetto, sia esso un film o un commercial, o qualunque altra cosa. Comprenderne lo spirito, l’identità più profonda ed il fine. Da qui in poi le scelte e le priorità si definiscono in modo naturale e istintivo. Non dico che ogni cosa si risolva sempre con semplicità, ma avere una comprensione profonda dell’essenziale orienta nelle scelte. Questo è anche il “luogo” in cui la nostra sensibilità personale fa più la differenza. Il secondo punto lo riassumo così: scelte coraggiose. Siano esse fotografiche, estetiche, tecniche, di linguaggio, io cerco di prendere una direzione e seguirla fino in fondo, coerentemente con la storia, per ottenere un risultato importante anche quando i mezzi sono pochi. La coerenza di poche scelte strutturali spesso è più interessante di un’abbondanza indefinita. Infine penso che investire molto tempo nella preparazione del progetto compensi buona parte dei limiti economici che si hanno, così come la scelta della squadra giusta – le persone fanno la differenza.
C’è un progetto in particolare di cui sei soddisfatto fotograficamente?
Sono molto autocritico: parlando di risultato fotografico in senso stretto, ad oggi nella mia produzione non c’è qualcosa che guardo e riguardo ipnotizzato, senza pensare che oggi farei cose diverse. Ci sono tante immagini che sicuramente mi piacciono molto e mi rappresentano. Però, la fotografia del film per me è definita molto anche dal modo di lavorare, dall’attitudine alla preparazione del progetto, da come si affrontano e si superano certe difficoltà e poi gli imprevisti, le soluzioni alternative che si trovano per ottenere un risultato coerente e forte per il racconto, mantenendo un certo tipo di rapporti e modalità di lavoro. Considerando allora i progetti nella loro totalità posso citarne due in particolare: EUROPA – il lungometraggio cui ho già accennato -, in cui ero anche operatore di macchina. Qui considero soprattutto la grande avventura tecnica, fisica e stilistica. Ricordo le difficoltà incontrate dalla preparazione al set e le soluzioni condivise e posso dire che sono molto contento del risultato di un lavoro di squadra irripetibile. Un film tutto in esterni, nel fitto dei boschi, dentro i fiumi di montagna, inerpicati tra le rocce e sugli alberi. Confrontarsi con la luce naturale e gli imprevisti di sorta – tra cui un’apocalittica tempesta di pioggia e vento in mezzo alla notte -, con ambienti poco percorribili cinematograficamente, rispettando lo spirito del racconto e la linearità narrativa, trovando nei piani sequenza la forma adatta per raccontare quella storia di sopravvivenza e speranza, resta un’avventura di cui sono molto soddisfatto. Poi c’è EPISODIO, un corto a cui sono molto affezionato. Era la prima volta che giravo un progetto così complesso dal punto di vista concettuale e tecnico. Girato in 35 mm, con delle parti più sperimentali di lavorazione a mano dei fotogrammi, è un progetto molto particolare, con la regia di Sonia Giannetto e il suo talento visionario, che cercava immagini più vistose e d’impatto, oltre ad una costruzione non narrativa che chiedeva proprio alle immagini di farsi veicolo del senso del film.