Gianluca Palma è uno dei Direttori della fotografia con cui abbiamo collaborato più intensamente negli ultimi anni. Fuori dal set, insieme a qualche bicchiere di birra all’Hop Corner, abbiamo consumato tra le discussioni sul cinema più belle e stimolanti. Gianluca è prima di tutto un amico, ma questo non sarà mai un’arma da poter sfruttare con lui sul set. Esigente e di posizioni estreme, sul lavoro non si risparmia, la sua capacità di metterti alle strette è uno dei suoi pregi migliori. Lavorare con lui significa divertirsi e crescere.
Gianluca, 39 anni, di Pescara, anzi Sambuceto. Ad oggi ha firmato la fotografia di 3 lungometraggi: Tutte le mie notti di Manfredi Lucibello, La Vacanza di Enrico Iannaccone e Ultras di Francesco Lettieri.
Gianluca, come nasce la passione per la fotografia nel cinema?
E’ nata una notte, guardando Fuori Orario di Enrico Ghezzi: davano Toro Scatenato. Erano gli anni del liceo, delle birre, delle canne e delle feste. Vedere quel film è stato illuminante. Facevo il liceo artistico e non avevo ancora bisogno di immaginarmi collocato nel mondo del lavoro, o di preoccuparmi del futuro. La passione per il cinema, che nel frattempo era cresciuta, trovò la sua consapevolezza Accademia dell’immagine de L’Aquila. Grazie ad un gruppo di lavoro composto da amici, cominciamo a fare ogni genere di video. Ma soprattutto con Ceresoli Gianluca. Brillante direttore della fotografia, cominciammo a sperimentare e a girare in un modo del tutto personale.
E lì cosa hai imparato?
All’epoca, il primo anno di Accademia era dedicato allo studio di tutti i mestieri del cinema. Questo ti dava due vantaggi: quello di capire quale fosse la tua vera propensione e quello di avere una consapevolezza massima del tuo ruolo nella macchina-cinema, che è una macchina fatta di ingranaggi che devono collaborare. Per me, ad esempio, lo studio del montaggio è stato fondamentale, perché mi permette, oggi, di ragionare e pensare la fotografia di una scena sapendo e pensando a quello che potrebbe succedere negli stadi successivi della lavorazione del film.
Chi sono stati i tuoi maestri e cosa hai imparato da loro?
Ho avuto diversi maestri nel corso degli anni. Vittorio Storaro è stata una figura fondamentale, da lui ho imparato cosa significa preparare un film, come puoi organizzare il lavoro e trovare riferimenti per ciò che vuoi ottenere (non solo cinematografici, ma attingendo anche ad altre arti, come la pittura e la fotografia). Lui era molto concentrato sul passaggio al digitale, spingeva perché capissimo l’importanza del cambiamento che stavamo vivendo, a differenza di Luciano Tovoli che invece era molto legato alla pellicola.
E poi c’è stato Paolo Carnera. Lui con noi ha avuto fin da subito un rapporto umano. Aveva un approccio diverso e molto legato alla contemporaneità. Da lui ad esempio ho imparato molto su come lavorare con mezzi contemporanei e alla portata di tutti. Per Carnera contano molto le idee.
Chi sono i tuoi riferimenti?
I miei riferimenti sono alcuni registi, che hanno un’estetica e un immaginario ben riconoscibili Yorgos Lanthimos, Stanley Kubrick, Paul Thomas Anderson. Quei registi che fanno un cinema visivamente forte. Poi chiaramente non posso non ispirarmi e seguire alcuni nomi imprescindibili: Almendros, Conrad Hall, Deakins, Storaro, Emmanuel Lubezki, Harris Savides. In Italia apprezzo molto il lavoro di Carnera, Cianchetti, Matteo Cocco, Vladan Radovic e Ferran Paredes.
Che cosa è per te la fotografia nel cinema?
Significa scrivere un film con le immagini. Dal mio punto di vista però non va frainteso il senso di questa frase. Il nostro mestiere è quello di creare immagini che siano al servizio di ciò che stai raccontando. So che sembra un paradosso, poiché parte della mia carriera si è costruita anche intorno a lavori come spot e videoclip che mettono l’estetica al centro del senso della narrazione, eppure credo che nei film l’estetica diventi molto meno rilevante rispetto al racconto. Un direttore della fotografia ha il dovere di realizzare anche immagini brutte, squallide o “televisive” purché siano coerenti con il film.
Come stai costruendo il tuo percorso da direttore della fotografia?
Facendo scelte economicamente sbagliate. A parte gli scherzi: divertirmi è il mio interesse più grande. Ci si può divertire anche solo andando a comprare delle lampadine se i tuoi colleghi sono anche amici. E’ così che vengono anche gli stimoli lavorativi migliori e si costruiscono percorsi di collaborazione innanzitutto umani.
E il rapporto col regista?
Dipende molto da chi è il regista, sia umanamente che tecnicamente. Con alcuni devi solo premere rec, come diceva NestorAlmendros, con altri devi fare quasi tutto il lavoro. Questo non vuol dire che siano registi meno talentuosi. Il nostro compito, da direttori della fotografia, è inserirci in un contesto e fare in modo che il film prenda vita. Ma gli spazi sono sempre diversi, e così cambia anche l’approccio.
Come reagisci artisticamente alla mancanza di mezzi e risorse?
La mancanza di mezzi e risorse non è mai una giustificazione per non realizzare quello che hai immaginato. E’ una lotta perenne su ogni inquadratura. L’esperienza poi è fondamentale, è l’unica arma che ti aiuta ad andare sempre più vicino ai risultati che avevi in mente.
All’inizio ad esempio accendi molta luce, e poi cominci a spegnere per ottenere quello che ti eri previsualizzato leggendo la sceneggiatura. Poi col tempo, con l’esperienza, accendi solo quello che veramente sai che ti servirà. L’importante è non vergognarsi mai di spegnere, quando è il caso.
C’è un progetto in particolare di cui sei soddisfatto fotograficamente?
No.
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