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Sito Web https://gravitydirectors.com/
IG https://www.instagram.com/cristiano_di_nicola/
Cristiano, classe 1990, è per noi un vero e proprio compagno di giochi. Abbiamo imparato a conoscerlo nei corridoi, nelle aule e sui set del Centro Sperimentale di Cinematografia. Negli anni di scuola siamo convinti che lui, più di tanti altri, abbia capito profondamente il senso dello “sperimentale” – che non è sempre sovversione di un canone, ma capacità di immaginare come superarlo quando diventa un limite. Sui primi lavori la sua Fiat Idea grigio chiaro, partita da Ciampino, arrivava sui set carica di gelatine e lampadine di ogni tipo. Il suo essere infaticabile è pura dedizione all’Arte. Ad oggi ha firmato la fotografia di due lungometraggi: Gelsomina Verde di Massimiliano Pacifico e Movida di Alessandro Padovani. Il primo dei due film lo abbiamo condiviso insieme, sfogando le stanchezze del lavoro con interminabili partite alla Playstation (insieme ad altri due personaggi che vi racconteremo quanto prima). Il giorno in cui ci siamo incontrati in location, una residenza teatrale nelle campagne di Polverigi, lo abbiamo trovato a cavalcioni su una scala mentre montava delle lampadine sul soffitto con le travi in legno. Ci siamo rimboccati le maniche: a fine giornata ne avevamo montate 450.
Come nasce la passione per la fotografia nel cinema? chi sono i tuoi riferimenti?
Penso che abbia “capito” cosa fosse la fotografia cinematografica vedendo a 16 anni Persona di Bergman, con la fotografia del grande Sven Nykvist. La passione per il cinema era nata guardando i film di Kubrick, ma i miei riferimenti sono sempre i film, mai lo stile dei DOP, almeno come appassionato di cinema – lo studio e l’analisi sono un’altra cosa. Ho amato ed amo i film di Bresson, Tarkovskij, Antonioni, Dumont, Reygadas, Tsai Ming Liang, se devo limitarmi solo a qualche nome.
Hai fatto una scuola di cinema? Cosa hai imparato dai tuoi maestri?
Ho frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia, ho fatto domanda perché vi insegnava Giuseppe Lanci, che aveva lavorato con Tarkovskij, allora ho pensato che potesse essere un incontro fortunato. Di Lanci mi ha colpito molto l’umiltà, che con la carriera che ha fatto non è un aspetto scontato, la profonda serietà, il grande rispetto per la visione del regista, che significa lavorare a ogni progetto cercando di entrare in sintonia con un’altra sensibilità, arrivando a risultati estetici sempre diversi, senza anteporre il proprio stile.
Penso che questi siano stati i suoi grandi insegnamenti, e poi è una persona che ti lascia molto libero di trovare la tua connotazione espressiva, insomma, mi sono sempre sentito libero di sperimentare, mi ha trasmesso la sua esperienza senza mettere veti sulla creatività, che è sempre un aspetto individuale.
Qual è il tuo approccio alla fotografia? Che cosa è per te la fotografia nel cinema ?
Credo che il digitale abbia slegato le immagini cinematografiche dalla circoscrizione all’ambito filmico, proiettandole in un confronto con le immagini in un senso più ampio. Quindi il nuovo paradigma è un paragone con tutte le immagini, non solo con quelle dei film, anche perché i nostri occhi vedono in maniera “digitale”, la pellicola metteva un filtro davanti al nostro sguardo, stabilendo, fra l’altro, la risposta ai colori; quindi questa innovazione che amplifica le nostre capacità creative, almeno in partenza ci mette in competizione paritaria con la maggior parte degli ambiti d’espressione visiva, da chi crea cartelloni pubblicitari fino all’installazione artistica, perché l’humus percettivo, il filtro di partenza con la realtà è lo stesso. E lo dice uno che scatta solo in pellicola, che la ama e che pensa che abbia contribuito alla creazione della maggior parte dell’immaginario dei nostri sogni. Credo che la fotografia cinematografica per me sia questa grande “competizione” fra tutte immagini del mondo nelle quali trovare quelle adatte al progetto che si fa in quel momento.
Come stai costruendo il tuo percorso da direttore della fotografia ?
Ho avuto la fiducia di qualche regista che mi ha dato la possibilità di esprimermi. Non sono un tecnico nel senso stretto, non amo il feticismo del reparto macchina da presa – i nastri, le viti. Conosco perfettamente l’utilizzo della maggior parte delle macchine da presa per il cinema, ma ho sempre trovato attraenti le “lampadine”, strettamente legate alla luce, a una questione fisica, ma anche imperscrutabile e misteriosa. Quindi mi sono proiettato subito sulla fotografia, dopo una parentesi nel reparto mdp, iniziando con lavori piccolissimi, perché credo che fare gavetta in altri ruoli non insegni cosa fa un Dop, considerando che l’illuminazione è solo una piccola parte dell’esperienza di questo mestiere. Praticare allena la tua visione, ti rende flessibile e pragmatico, ti consente di sperimentare e capire, quando fai altro non hai tempo di pensare alla luce. Attualmente lavoro con molti registi, tutti diversi, e sono loro molto fedele, non li tradisco mai, parlo di lavori grandi ma anche di quelli minimi.
Come costruisci un progetto in merito alla fotografia?
Ho due grandi ossessioni da cui visivamente parto sempre, Francis Bacon e Romeo Castellucci. Quindi, anche se non mi servirà, anche se il progetto è una pubblicità, riguardo sempre il più possibile di questi due grandi creatori. Rileggo sempre un libro di Castellucci, che è la trascrizione di un discorso che fece per accettare una laurea honoris causa: A te, giovane artista ignoto.
Una frase di quel discorso la porto sempre con me: “Cancella delle parti, con lo scopo deliberato di rendere difficile l’identificazione di un’immagine. Questo effetto creerà ansia e lo spettatore sarà costretto a guardare dentro di sé”. Una cosa che in pubblicità non apprezzano molto. Dopo questo inizio a entrare nel contingente del lavoro, è un processo molto faticoso, molto più che girare, perché porta sempre a distruggere, cambiare, rinunciare e ripiegare. Bisogna sempre anticipare il progetto e, nello stesso, tempo rinegoziare le tue idee con l’evoluzione del lavoro. Ma quelle idee avranno seminato possibilità sul progetto, perché è qualcosa che non se ne va mai davvero, resta questo labirinto visibile di strade interrotte, e la limitazione (di campo) che ti davano fornirà comunque un terreno, magari fragile, magari di un altro materiale, ma rimarrà una guida flebile, che potrebbe diventare il contrario. Per questo, all’inizio, il pregiudizio, che sia mediato o istintivo, rimane fondamentale, e lo sforzo che si fa per rinnovarlo fino alla fine è veramente l’atto creativo, la base ma anche la “personificazione” di quello che poi si vedrà.
Questo accade perché rinnegare mette in discussione, e giocare senza esclusione di colpi dà al processo una dimensione quasi agonistica, è un gioco al rilancio nel quale l’immaginazione più astuta sopravvive; quindi se non si arriva lontani dai propri presupposti, se non si è disposti a contestarli, non si verifica veramente un atto creativo, ci si accontenta di quello che si conosce. Ma forse questo agonismo è una regressione verso la possibilità di una visione grado zero, cioè regredire al distillato puro tramite una forma che ci stupisce, allora non conta più niente di quello che pensi, importa soltanto quanto riesci a sorprenderti. In tutto questo a un certo punto arriva la linea da seguire, che attinge a piene mani da questa stratificazione e sedimentazione di tutti i materiali che si sono analizzati: dalla musica ad altri film, da una fotografia a un’opera teatrale, dalle conversazione coi reparti al fare un’esperienza diretta che si avvicini alla sequenza che poi si andrà a girare. Ci vuole questo magma di possibilità ma anche molta organizzazione del lavoro. Alla fine qualcosa arriva.
In che consisterebbe il tuo rapporto ideale con un regista?
Il rapporto ideale si raggiunge quando col regista si diventa tanto intimi da riuscire a essere reciprocamente sinceri su ciò che ci rende vulnerabili.
Nei progetti di cui hai realizzato la fotografia ti sei scontrato con la mancanza di mezzi, come hai reagito da un punto di vista artistico?
Succede praticamente sempre, in ogni tipo di progetto, perché più hai e più, inconsciamente, vorresti. Quindi bisogna trovare sempre una mediazione all’interno delle modalità di un progetto. Mi piace molto costruire da me certi strumenti, cercando quelli più giusti per ogni progetto, accordando il tipo di luce che mi sembra più ficcante alla praticità di utilizzo. Può essere un tipo di materiale o un corpo illuminante progettato da zero, passando per un intervento diretto sulle ottiche: nel 2018, per un film piccolissimo, assieme al grande Massimo Proietti sviluppammo un trattamento chimico da applicare direttamente sulle lenti, questo effetto smussava un po’ le alte luci rendendole più dolci, sfumate e materiche, sovvertendo la tendenza del digitale ad essere molto lineare in quelle zone dell’esposizione. Quelle stesse ottiche vennero utilizzate qualche mese dopo da un DOP di grande esperienza che alla fine si attribuì la nostra ricerca su quel trattamento, un vero squalo. Dapprincipio fui molto dispiaciuto, poi pensai che era una chance in più per andare oltre quella piccola invenzione. Alla fine queste limitazioni, questi problemi possono diventare incidenti creativi, e la luce, spesso, sarà più onesta. Quando hai tutto si finisce per gestire le risorse ma con meno intervento del caso sul tuo lavoro.
C’è un progetto in particolare di cui sei soddisfatto fotograficamente?
Ho imparato a rispettare tutti i diversi sentimenti che provo ogni volta che riguardo uno dei miei progetti. E piuttosto che sentirne emergere uno fra tutti, trovo molto interessante che ogni film, commercial, videoclip, documentario o cortometraggio che affronto, contribuisce ad ampliare un prezioso spettro di riflessioni sul mio lavoro. Di questo mi ritengo soddisfatto, dell’insieme di consapevolezze che ognuno mi ha dato.